Inverni

Alla fine è bello invecchiare perché ti sorprendi a riconciliarti con le "cose" (sottolineo che non ho detto persone) del mondo che, quando sei giovane ed energico, hai tempo e voglia di disprezzare solo perché, poracce, mettono tristezza o suscitano ribrezzo: alcuni insetti, ad esempio, o le foglie vecchie d'inverno. Infatti le cimici, adesso, le catturo facendo ben attenzione a non fiaccarle nel fazzoletto, per poi sbatterle velocemente fuori dalla finestra, anziché nel cesso e tirare lo sciacquone. No, non vado fiera del cimicidio da me protratto nel tempo, ma sto cercando di rimediare già da un pezzo. Basti pensare che ho all'attivo parecchi salvataggi di scarafaggi o cervi volanti disperati che, ribaltatisi per motivi sconosciuti (dato che non mi risulta si alcolizzino), ho travato zampettanti, pancia all'aria, nel tentativo di riconquistare il verso giusto. Una volta avrei schifato l'essere immondo, schivato responsabilità e proseguito oltre, magari pure un po' divertita, seppur con orrore. Ora, non posso dire di trovarli adorabili, tuttavia mi è capitato di riuscire ad osservarne alcuni con un certo distacco, senza l'intervento dei miei pregiudizi e... un po' come quando, in matematica, si vuole dimostrare qualcosa partendo da un ragionamento di questo tipo: "Poniamo, per assurdo che (nel nostro caso) lo scarafaggio non faccia schifo, ma sia solo quello che è...". E, in effetti, è successo qualcosa: ho cominciato a distinguere la danza dei colori metalizzati della corazza che ammiccano alla luce, la stupefacente perfezione che ha cesellato infinitesimi particolari, la potenza della vita che sa manifestarsi in tante strutture diverse. E ho iniziato ad intuire che c'è qualcosa che non si vede, a meno di non guardare davvero. E che, per farlo, c'è bisogno di attenzione. Io credo che, se avessimo più attenzione, potremmo avere esperienze simili anche con le sensazioni (caldo, freddo, fame, sete, fatica...), le emozioni (tristezza, gioia, paura...) e i dolori. Ho provato ad osservarmi mentre mi trovavo in una di queste condizioni e, invece di pensare ossessivamente ad essa e a come liberarmene ("Ho fame...", "Cazzo che fame!", "Cosa mangio?", "Ah già: frigo vuoto...", "Ho fame, cazzo! " etc...), mi son chiesta: "Che cos'è questa sensazione che associo alla fame?". E, mentre l'ascoltavo, mi domandavo perché percepissi tale determinata condizione come sbagliata, fastidiosa, da eliminare. In fondo non era che quel che è: una sensazione di vuoto localizzato a livello della pancia (che è comunque meglio del vuoto cerebrale di molti); un semplice stomaco che brontola. Per altro molto meno tedioso delle chiacchiere della maggior parte della gente. Lo so: starete pensando che, la prossima volta che avrò fame, basterà semplicemente mangiare, alla peggio dopo aver fatto la spesa, invece di scrivere cazzate. E lo penso anche io: d'altronde per penetrare davvero questi meccanismi è necessario allenare l'attenzione ad alti livelli. E non mi pare, questa, l'epoca giusta. Tempismo di merda... Ma perché non torno indietro di vent'anni, accendo la tv, spengo il cervello e mi sintonizzo su uno spirito più adatto ai tempi? Ma no: indietro non si torna, per cui, torniamo a noi....Ho brillantemente disquisito delle "cose" schifose del mondo, ma non ancora di quelle tristi (no non sto per parlare di persone, giuro). Come, appunto, il colore secco delle vecchie foglie d'inverno che tornano alla terra dopo aver mollato la presa e sciolto il legame col ramo. Dopo giorni di venti e cieli di pioggia che l'hanno sferzata. Dopo aver nutrito sé e di sé. Dopo aver accettato la sfida di farsi altro dal fusto per diventare se stessa. Ha continuato a compiere il miracolo dell'esistenza fino alla caduta, epilogo ineluttabile e necessario. E perché mai questo dovrebbe essere triste? O meglio: perché più o meno triste di qualunque altra fase della sua vita? Forse perché tendiamo a vedere le cose come ci sono state spiegate: con la morte che termina un ciclo, o con un ciclo che termina con la morte. Ma se si tratta di cicli, allora non e più possibile essere certi che un punto corrisponda all'inizio ed un altro alla fine, perché, come lungo una circonferenza o sulla superficie di una sfera, procedendo sempre dritti si ritorna, prima o poi, sui propri passi. Allora la caduta delle foglie, oltre a pennellare uno spettacolo di marroni ed ocra che necessitano di più attenzione rispetto ai cugini sgargianti d'autunno, non è la fine. Le foglie cadute d'inverno, marroni e vecchie come la Terra, segnano l'inizio della vita, predispongono il terreno affinché ne sia culla. Ecco perché, dopo tanto stare come d'autunno sugli alberi le foglie, ho deciso di mollare la presa anch'io, alla fine, per stare un po' qui, a terra, caduta tra cadute. Per imparare nuovi inizi. 
P.s. Comprate il libro NUOVO così la smetto di scassare! 

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