Una seconda casa

Aver svolto la professione di educatrice nella stessa Rsa per anziani per 11 lunghi anni significa aver avuto una seconda casa ed una seconda, grande famiglia. Questo si fa ancor più evidente nel momento in cui, essendosi licenziati da quasi 3 anni, ed andando periodicamente in visita presso la struttura, si abbia la palpabile impressione di esserci stati giusto ieri perché i locali e gli arredi sono rivestiti di una patina di familiarità tale che nemmeno il tempo riesce a scalfire. Si sa che si è di nuovo a casa quando, sotto Natale, trovi sulle porte gli addobbi di cartone e lana che gli ospiti di allora, sotto la tua paziente guida, hanno fabbricato con tanto impegno. Si ha, così, la certezza di non esser stati dimenticati: tracce di te sono ancora disseminate ovunque. Si capisce di essere sempre a casa quando leggi negli occhi degli ex colleghi la gioia di rivederti e capisci che è sincera. Sai di aver fatto parte di una famiglia perché è vero: ci si è scontrati; a volte si è detto e pensato male gi uni degli altri. Ma alla fine ci si è voluti bene; ci si è sopportati e supportati; si è riso e pianto insieme. Perché insieme si sono affrontate guerre terribili, come il Covid, che ci ha visto in prima linea contro la morte. Allora quando senti il calore dell'abbraccio di un ex collega che non vedi da un po', percepisci che c'è ancora un legame fatto di rispetto, affetto, gratitudine, se non addirittura d'amicizia. A maggior ragione ci si sente in famiglia quando gli ospiti che hai "educato" ed i loro parenti veri, non solo ti ricordano, ma addirittura ti rimpiangono e supplicano di ritornare. Il che è gratificante e straziante nello stesso tempo perché è innegabile che cambiare lavoro, se il tuo è un lavoro di cura, equivale ad abbadonare. Lasciare una famiglia che ti ha permesso di essere pienamente te stessa nel bene e nel male, giudicando duramente a volte (ma chi non lo fa?), ma fondamentalmente accettando, non è affatto semplice. Soprattutto se molto numerosa come in questo caso. Allora il vuoto che sento a volte è quello lasciato dalle partite a carte col gruppo degli uomini, dell'intimità che si crea nel risistemare gli armadi delle più precise e smaltando le unghie delle più vanitose, dal divertimento nel ballare e cantare per loro durante le feste di compleanno, dal senso di responsabilità che deriva dal fatto di sapere d'esser attesi ogni giorno ed accolti come una benedizione solo perché oggi hai proposto una tombolata. Il vuoto che sento è la prova che non è del tutto vero il principio del "date e vi sarà dato... perchè la misura con la quale misurate, sarà misurata a voi in cambio." Perché per quanto io mi sia donata [a volte più a volte meno, spesso presa (male) dalle "mie cose"], ebbene loro mi hanno dato sempre, ed immensamente di più. In conclusione: pensavo fosse il mio lavoro, invece è la mia seconda famiglia. 
P.s. Comprate il TERZO libro così mi consolo per il secondo!

Commenti

Post popolari in questo blog

Una malattia chiamata adolescenza

Vecchia foto

Beati quelli che piangono